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Un anno fa, l’assassinio di George Floyd mise in moto una serie di eventi che avrebbero cambiato le vite di innumerevoli persone. Nei giorni seguenti, mentre la gente era alle prese con la tragedia e protestava, fu la figlia di sei anni di George Floyd, seduta sulle spalle di un amico di famiglia ed ex giocatore NBA, a riassumere la situazione in modo inaspettatamente toccante.
“Il mio papà ha cambiato il mondo”, annunciò con un sorriso.
Fu una dichiarazione inattesa e incoraggiante da parte di una bambina che aveva appena perso suo padre, ma anche una frase che molte persone nel mondo presero a cuore. Lo sentii per la prima volta quando vidi un messaggio del mio datore di lavoro sui social. Erano soltanto sette parole, il testo era bianco e in grassetto su uno sfondo nero. Diceva: “Genesys è solidale con la comunità nera”.
Quel gesto mi commosse davvero. Il riconoscimento formale del dolore della comunità nera, in quel momento, era qualcosa che non avevo mai sperimentato come professionista. E fui orgoglioso della dichiarazione ma al contempo rimasi sorpreso da essa. In quel momento, mi colpì il fatto che sembrava un invito a fare qualcosa ma anche un riconoscimento della mia rabbia e del mio dolore. Era un invito. Era un’apertura.
Poco dopo, ebbi l’opportunità di aiutare gli altri a vedere il dolore attraverso i miei occhi quando feci da oratore durante una tavola rotonda aziendale moderata dal nostro CEO. Raccontai una storia in cui spiegavo di aver permesso a mio figlio di prendere in prestito una mia decappottabile d’epoca e la paura che provai quando si allontanò alla guida dell’auto. Dissi loro come ci si sentiva ad essere un padre nero, cosciente del fatto che lasciare che suo figlio sperimentasse quel piacere particolare della gioventù poteva anche voler dire mettere la sua vita a rischio, se la gente attorno a lui non l’avesse visto per chi era realmente. Dissi loro che lui, o io, in un giorno qualsiasi, saremmo facilmente potuti diventare il prossimo George Floyd.
Nel giro di pochi giorni, mi avrebbero offerto l’opportunità di diventare il primo Global Diversity, Equity and Inclusion Officer di Genesys. Mentre l’invito a fare qualcosa si faceva sempre più forte, feci un respiro profondo e da un giorno all’altro cambiai la professione che avevo esercitato per oltre 25 anni. Si trattava di un’enorme opportunità per promuovere il cambiamento.
Genesys stava già lavorando alla costruzione di un’organizzazione migliore, più equa e diversificata. Ma con l’impegno di creare un ente dedicato a queste iniziative, siamo stati in grado di accelerare le modifiche. Il nostro primo passo ufficiale come team DEI è stato quello di impostare una nuova rotta, decidendo intenzionalmente di partire dall’inclusione. Abbiamo iniziato con conversazioni a livello aziendale che aiutassero i dipendenti di gruppi tradizionalmente emarginati a sentirsi visti e ascoltati sul posto di lavoro. Abbiamo proseguito con lo smantellamento dei sistemi, per poi ricostruirli su una base di parità e uguaglianza, in modo da rimuovere eventuali barriere che avrebbero rischiato di operare a sfavore dei gruppi poco rappresentati
Un anno in rassegna
Negli ultimi 12 mesi, abbiamo lavorato per sviluppare una serie di sforzi incentrati sull’agilità, in modo da costruire in Genesys una prassi DEI sostenibile e di successo basata su tre pilastri: forza lavoro, ambiente di lavoro e società. Questi pilastri sono fondamentali per creare un approccio equilibrato nella gestione delle disuguaglianze dentro e fuori da Genesys. Mi incoraggia ciò che abbiamo già realizzato in un periodo di tempo relativamente breve, tra cui:
Non ci fermiamo e non ci fermeremo
Quando penso alla nostra cultura in Genesys e a come, collettivamente, continuiamo a lavorare per costruire un’organizzazione migliore e più equa, in cui ogni voce viene ascoltata, valutata, ricordata e compresa, non posso fare a meno di pensare al motto del nostro gruppo di risorse per i dipendenti neri: “Can’t stop, won’t stop. (Non ci fermiamo e non ci fermeremo)”. È la chiusa tipica dei nostri eventi e delle nostre comunicazioni ed è particolarmente importante.
Stiamo iniziando il secondo anno di questo viaggio e siamo ancora convinti come lo eravamo all’inizio, se non di più. All’inizio di questo mese, abbiamo firmato il CEO Action for Diversity & Inclusion Pledge (Impegno del CEO alla diversità e all’inclusione), entrando così in una lista sempre più lunga di leader che si impegnano ad agire per creare posti di lavoro più inclusivi. Alla fine, saranno le nostre azioni, non le nostre parole, a fare la differenza. Ora ti sfido a pensare a quali azioni puoi intraprendere per arrivare a quel cambiamento che la figlia di George Floyd ha sottolineato con gioia.
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